Sessantuno minuti

Molto piú di sessantuno minuti sono passati da quando Gianni mi ha proposto di scrivere un racconto in soli, appunto, sessantuno minuti.
Ho fatto in modo di non pensare a niente prima di mettermi a scrivere e di non scrivere niente a cui avevo pensato prima. Sembrerebbe una cosa difficile ma per me che non penso mai a niente è quasi una dote naturale.
Scelto un album da ascoltare per l’ispirazione, ho impostato un timer ed ho iniziato a scrivere un carattere dopo l’altro.
Il risultato sarà quello che sarà, ma almeno questa volta ho una scusa!
Ci tengo a precisare che ho impiegato solo cinquantotto dei sessantuno, compreso una rilettura e mezzo.


 

Sessantuno minuti

Era un sogno, questo lo sapeva. Una delle particolarità di questo sogno era proprio la consapevolezza di star sognando e certamente non era l’unica.
Nessun sogno è privo di particolarità. O di particolari.

Vagava in un deserto roccioso, arido e apparentemente privo di vita. Le nubi in lontananza promettevano una pioggia che forse non sarebbe mai arrivata, oppure sarebbe arrivata troppo tardi.
Non sapeva perché doveva arrancare su quella terra desolata, spaccata, mortifera. Sapeva che sarebbe morto se si fosse arreso, che gli avvoltoi gli avrebbero mangiato gli occhi e strappato le carni, probabilmente ancora prima di morire.

Incredibile come un deserto, apparentemente privo di vita si popoli quando la morte è nell’aria.
Alla fine la vita è una condizione relativa, irreale il piú delle volte, tragica quando non ridicola.
La tragedia è ridicola? Le droghe che aveva preso nel sogno non facevano altro che peggiorargli i pensieri, mescolandogli le idee. Sapeva di aver preso delle droghe ma non sapeva perché.
Forse era una prova. Che genere di prova però?
Odiava quel sogno, odiava dover odiare quel sogno, sapere che stava sognando e quindi odiando. È cosí futile odiare, odiare un sogno è una tragedia. Quindi ridicolo.
Il pensiero fuggiva piú rapido della danza dei fantasmi, forse sue proiezioni del passato, differenti da lui ma a lui afferenti, che aveva creduto di vedere ai confini di quella “mesa”.

Forse far fuggire i pensieri era un buon modo per sopportare la sete ed il sole. Non pensare alle labbra spaccate o la difficoltà a respirare… di nuovo il sogno lo aveva riportato all’interno del sogno. Non era riuscito a scappare: pensando di scappare si era chiuso in gabbia.
Nello spazio infinito di un deserto eterno, sempre assolato, sempre bruciante. Un mondo completamente piatto senza un sopra o un sotto, senza un avanti o un dietro.
Gli avevano detto che doveva seguire una volpe, una volpe rossa.
Chi glielo aveva detto? Possibile che non riusciva mai a ricordarlo? Possibile che questo sogno si ripetesse sempre allo stesso modo? Una prova da superare, il ricordo dei fantasmi, la speranza di scappare, l’obiettivo datogli da qualcuno che non riusciva a focalizzare, il benessere della comunità… la cerimonia!
C’era una cerimonia, lo sapeva, ricordava che c’era qualcosa, un’antilope forse… lo sconforto nel non ricordare in cosa consistesse quella cerimonia a questo punto del sogno era talmente abituale che se non ci fosse stato non era sicuro sarebbe stato contento.

D’altronde, nei sogni o al di fuori di essi, da soli nel deserto, od in mezzo alla folla, le abitudini sono ciò che ci caratterizzano. È impossibile abbandonare le proprie abitudini, cosí come è impossibili abbandonare noi stessi, tanto nella salute che in punto di morte.
Il sogno, dopo gli ultimi pensieri, come sempre, gli portava alla memoria, alla presunta memoria che lui sapeva non appartenergli, essere solo un sogno, ma che dentro al sogno sapeva essere la sua memoria, i fasti di antiche vittorie. Vittorie che non appartenevano a lui, ma a chi era venuto prima di lui, ai suoi antenati, a quelli che avevano insegnato tutto a quelli che avevano insegnato tutto a quelli che avevano insegnato a quelli che avevano insegnato e cosí via, fino ad arrivare a lui. La vittoria del passato era la vittoria del presente, lui era chi lo aveva preceduto.
Dubitava sarebbe potuto essere qualcuno dopo, ed anche che qualcuno dopo sarebbe potuto essere lui. Quel deserto doveva essere la sua fine. La fine nel sogno, ovviamente, ma forse anche la fine al di fuori del sogno.

Mentre il sole continuava a bruciargli la pelle ed i raggi a giocare con i suoi occhi ormai secchi, sapeva di avvicinarsi alla fine del suo cammino. Sapeva che non avrebbe piú dovuto sottoporsi a questi riti, sapeva che questa non era una cosa buona, che aveva già forzato la mano sperando di trovare quella volpe in mezzo al deserto.
Al centro di quella desolazione c’era il totem sacro che doveva raggiungere, sapeva che era impossibile e sapeva che il suo tentativo era destinato a fallire.
Come sempre.
Però il Grande Corvo gli aveva parlato, questo era il momento in cui il sogno diventava ancora piú strano.

Sbattendo le ali gli aveva indicato la sua missione, con il becco lo aveva spinto e si era lasciato spingere, zampettando qua e là, sbattendo le braccia affinché diventassero ali e quando, finalmente in volo si vedeva stramazzare al suolo, per poi gettarsi in picchiata.
Quante volte le persone pensano agli avvoltoi e non ai corvi? Se lo chiedeva sempre quando con il becco iniziava a tagliare le carni del suo cadavere.

Il sogno finalmente stava cambiando: il cielo si fondeva con la terra, cosí come il corvo con l’uomo, tutto virava al rosso, il rosso della terra, il rosso del tramonto, il rosso della polvere, il rosso del suo sangue.
Finalmente il sogno era finito, erano passati solo sessantuno minuti.


L’album che ho usato come ispirazione è Anonymous dei Tomahawk.
Lo dico cosí funge anche da spiegazione al racconto stesso.

About ysingrinus

Mi sono accorto che non avevo scritto niente qui e cosí ho deciso di scrivere qualcosa.
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79 Responses to Sessantuno minuti

  1. Presa Blu ha detto:

    Notevole per soli 58 minuti!

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  2. Liza ha detto:

    Il Grande Corvo….
    Bellissimo bravo Ysi!!

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  3. Francesca Fichera ha detto:

    Mi ha presa dall’inizio alla fine del tempo. :)

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  4. gianni ha detto:

    Che dire… mi ha ricordato tutto ciò: https://en.wikipedia.org/wiki/Ouroboros
    Questo articolo conferma che aspettare è sempre bene.

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  5. gianni ha detto:

    L’ha ribloggato su ilperdilibrie ha commentato:

    Oggi è il giorno del Reblog! Questo articolo risponde ad una “sfida con se stessi” lanciata sul presente blog qualche tempo fa e cioè comporre un racconto in 61 minuti! Magari ascoltando un album che duri 61 minuti.
    Ysi lo fa con la sua consueta mano tagliente. A me ha ricordato il serpente che si nutre di sé, a voi?

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  6. ivano f ha detto:

    Molto interessante!

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  7. ili6 ha detto:

    Mi piace. Sei riuscito a creare la giusta atmosfera. In 61 minuti.
    quando mi capita di scrivere un racconto di getto, di impeto, forse anche in meno di sessantunoa minuti, ne esco sempre soddisfatta. In fondo è un bisogno che si sta realizzando velocemente. Bello.

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  8. Cose da V ha detto:

    Bravo Ysi. Mi è piaciuta l’atmosfera arida. Non so, ho un “debole” per queste atmosfere, anche se nel caso di questo racconto sono terrificanti. Rendono tutto più intenso, sembra che (morte a parte) non ci sia possibilità di trovare sollievo. E ho apprezzato le tue considerazioni. Complimenti!!

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  9. Domanda per Ysingrinus: erano passati 61 minuti nel sogno, o nella realtà?

    Domanda per chi lo sa: come si capisce, esattamente, che un sogno è finito? Molti films si sono occupati di temi simili (penso ad esempio ad INSHEPTON), ma per quanto spiegosi non hanno mai chiarito questo punto. Un punto essenziale.

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  10. Annika ha detto:

    Vari ricordi, varie opinioni. Letto con piacere!

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  11. Affy ha detto:

    Nessun sogno è privo di particolari ma è particolare la creatività che si trova dentro ogni tuo racconto e qui addirittura in una manciata di secondi. Complimenti! ;)))

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  12. Firstime In Boston ha detto:

    Sinceramente mi vedo bene come cibo per gatti.

    Uno dei tuoi lavori migliori, assolutamente cinico, violento, angosciante e con quella sana atmosfera alla E. A. Poe che non fa mai male. E poi crei perfettamente il concatenamento dissociato ma comunque coerente nei sogni.

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Fhtagn

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